Diversamente abili
Persone diverse?
Ultimamente ha preso piede la moda, per altro introdotta anche nelle circolari scolastiche, diventando così il termine ufficiale da utilizzare, di chiamare le persone disabili: “Diversamente abili” o “Diversabili”.
La nostra domanda è: non c’è una contraddizione di fondo in questo? Cioè, nel momento in cui vogliamo integrare una persona per non farla sentire diversa, non è ipocrita o fuori luogo apostrofarla: diversa? Diversamente abile?
Il dubbio è lecito, soprattutto se consideriamo che il termine spesso non è gradito proprio da chi è “diversamente abile”.
Ma il dubbio si fortifica ancora di più se proviamo ad applicare la modalità ad altre categorie spesso discriminate:
pensate se chiamassimo le persone nere:
- diversamente colorate o diversamente pigmentate
oppure le donne:
- diversamente sessuate
o gli omosessuali:
- diversamente orientati
o ancora le persone non italiane:
- diversamente nazionalizzate
e concludere con i meridionali:
- diversamente ubicati
Il problema c’è, ed è sicuramente di difficile soluzione, spesso dovuto soprattutto alla vergognosa abitudine di trasformare termini usati in medicina, in pedagogia o in sociologia in vere e proprie offese: così è stato per “mongoloide”, “handicappato”, poi è stata la volta di “down” e “spastico”. Ma anche termini che denotano una condizione sociale “barbone” “senzatetto” o “pezzente”. Ma accade addirittura anche per termini che non delineano una problematica o una condizione sociale, come per esempio “marocchino” o “polacca” che dovrebbero indicare il luogo di nascita, la provenienza, la cultura di un individuo, ma che nel linguaggio comune, in modo ignobile, diventano dispreggiativi utilizzati per offendere o etichettare persone. E non sono esonerati da questo uso infelice i lavori che la società cosidera meno in “auge”, così spazzino, pompiere, il bidello etc. possono assumere significati dispreggiativi tale da comportare negli anni il cambio della terminologia: operatori ecologici, vigili del fuoco etc. !
Vero è che in molti casi, la scelta infelice, si denota già sul termine coniato inizialmente, come il caso “mongoloide” o “spazzino”. Ma questo non fornisce un alibi ad una società sempre pronta a disprezzare, denigrare, svalutare gli individui, soprattutto quelli che ritiene “diversi” o “inferiori”.
Ci sono casi, inoltre, in cui il termine viene utilizzato in maniera inappropriata perché si commette un errore di base. Alcuni infatti utilizzano il termine Down per definire una persona di scarsa intelligenza, non perché associata di per sè alla sindrome della trisomia 21, ma perché ritenendo, erroneamente, che il termine significhi: giù, in basso, di sotto, inferiore (dall’inglese), volendo definire la persona “inferiore” di scarsa intelligenza, ignorando che il termine non ha niente a che vedere con la parola inglese down (basso, giù etc.) ma è legata al nome di chi, nel 1866, scoprì la sindrome: Sir John Langdon Down!
Ma la nostra domanda è: non può accadere lo stesso per “diversamente abili”? Non sarà che tra qualche anno ci renderemo conto che la scelta sarà considerata infelice?
Le intenzioni iniziali erano buone poiché si mirava a sottolineare che hanno capacità diverse e spesso migliori delle nostre: vedi l’udito e il tatto nei cechi (“non vedenti” nella terminologia moderna), vedi la memoria fotografica di alcuni soggetti autistici. Ma dire che hanno delle abilità diverse, lascerebbe presupporre che non possiedono quelle “comuni”. Nel dire che un ragazzo sulla sedia a rotelle ha delle abilità diverse potrei lasciare intendere che non sa leggere, no sa scrivere, non sa parlare, perché possiede delle abilità diverse, non quelle che abbiamo noi.
Certo diventa una scelta difficile: parlare delle abilità che non hanno, quindi “disabilità” o di quelle che hanno? Ma dovrebbe essere riferito ad abilità diverse dalle nostre: quindi nel caso dei cechi, dovrei chiamarli iper-tattili o iper-udenti? Ma noi, purtroppo, dobbiamo per forza di cose definirli, dobbiamo per forza di cose dare un nome alle persone disabili quando devono avere dei vantaggi, in ambito burocratico. L’assurdo è che tendiamo a definirli sempre, anche quando non ce n’è nessun bisogno.
Nella norma dovremmo parlare della persona con il suo nome, semplicemente, senza ricordare sempre la sua disabilità, senza quelle apposizioni che continuamente usiamo quando parliamo delle persone disabili, citiamo prima la disabilità e poi la persona.
Ritornando al discorso burocratico, secondo il nostro modesto parare, la terminologia più adatta dovremmo andarla a prendere da un recente passato, “persone con handicap” o “persone disabili”, ma ben venga un termine che possa soddisfare le esigenze di tutti, ma che non sottolinei, già nel nome una diversità: diversamente abili.
Quando lavoravo con i bambini con grave ritardo psico-fisico, in Germania, io ed alcuni colleghi, eravamo soliti definirli “bambini speciali”, ma per noi lo erano davvero speciali, sarebbe lo stesso per una società che spesso tende ad emarginarli?
Ma tutto questo nasce da due problemi, soprattutto italiani:
Forse, e sottolineo forse, se non avessimo questa abitudine infame di utilizzare terminologie specifiche per offendere ed insultare, non avremmo bisogno di coniare continuamente termini nuovi.