Capitolo 15 – Il litigio
Si ritrovarono vicino al palazzo delle Assicurazioni Nazionali, un edificio di dieci piani, era sicuramente vuoto e decisero di entrare. Presero l’ascensore e si fermarono al quinto piano. Pamela gli chiese perché il quinto, e lui le rispose che era centrale tra i dieci piani, il migliore in caso di pericolo, perché avrebbero avuto due vie di fuga, verso i piani superiori o verso i piani inferiori. A Pamela sembrava un labirinto. C’erano corridoi che si intrecciavano tra di loro, scalinate all’inizio e e alla fine di ogni corridoio, porte decine di stanze. Ogni tanto Camillo entrava in un ufficio per poi riuscire subito dopo pochi secondi. Finalmente dopo svariati tentativi tornò e disse a Pamela di entrare. Camillo spiegò a alla ragazza che aveva trovato una stanza dove c’era un balcone dal quale potevano osservare la città senza farsi notare. Il balcone di cemento aveva un’apertura orizzontale nel parapetto dalla quale era possibile guardare in basso la strada prospiciente. Si accovacciarono per terra ed incominciarono a scrutare. Camillo prese la fotocamera ed usò l’obbiettivo come cannocchiale e mostrò a Pamela il risultato, sembrava di essere in strada. La ragazza fece un sorriso di approvazione.
Dopo un po’ la ragazzina prese coraggio e andò da sola in uno dei bagni del corridoio per lavarsi.
Quando tornò aveva un vestitino nuovo di quelli presi al negozio. Camillo restò a bocca aperta. La ragazzina lo notò e si imbarazzò.
«Dove abiti?» chiese Camillo per allentare l’imbarazzo.
«Al Prosperitano!»
«Dalle suore!»
Era ormai buio e rientrarono nella stanza chiudendo la portafinestra. Restarono con la luce spenta. Camillo chiese come si vivesse dalle suore. Pamela restò per qualche secondo in silenzio, era restia a parlare della sua vita, ma poi si lasciò andare, e raccontò la sua storia, soprattutto raccontò della piccola Betta.
«Quando arrivai dalle suore lei era già lì. Si affezionò subito di me. Chissà come sarà triste senza di me. E tu?»
«Mia madre se ne andò quando ero piccolissimo e mio padre si risposò. La matrigna era brava, ma mio padre la tradiva sempre e un giorno se ne andò anche lei. Da allora mio padre incominciò ad ubriacarsi, ad usare le mani, e a portare sempre donne diverse a casa. Un giorno ho giurato che quando sarei diventato grande gliene avrei date di santa ragione per fargli pagare tutte le botte che mi ha dato da quando ero piccolo!»
Pamela sorrise.
«Anche io una volta ho detto a Betta che quando sarei diventata grande sarei tornata al Prosperitano e avrei legato suor Cetaceo ad una sedia nel mezzo della campagna e l’avrei ricoperta di miele e l’avrei guardata ridendo mentre le formiche le camminavano addosso, o le api o magari un orso!».
Da dietro la porta finestra Pamela vide qualche movimento nella piccola fessura del balcone e si zittì di colpo. Aprirono piano la portafinestra e strisciarono fuori furtivamente. Aveva visto bene, in strada c’era qualcuno, Camillo prese la fotocamera, era lui, Dabby Dan. Camillo le fece cenno di fare silenzio con il dito sulle labbra. Visto da vicino, con l’obiettivo, incuteva ancor di più sbigottimento. Camminava guardandosi intorno come se cercasse qualcuno. Di tanto in tanto passava vicino qualche auto ferma e la prendeva a calci fino ad ammaccarla, qualcun’altra la rigava con il coltello.
«Ma è pazzo?» disse Pamela.
«Già! Davvero strano per uno sano di mente come lui, che uccide i bambini e se li mangia!»
«Dici che è strano?» replicò Pamela.
Camillo alzò gli occhi al cielo sconsolato.
«Sto scherzando Pamela, ero ironico, certo che è pazzo!»
Pamela ci restò un po’ male ma preferì non dire niente.
Continuavano a seguirlo con gli occhi mentre il mostro faceva dei giri strani, si avvicinava ad un negozio, si specchiava, poi si allontanava di qualche metro, per poi ritornare a specchiarsi. Così per almeno dieci volte.
Poi camminava per strada, faceva dieci passi e si fermava di colpo. Tornava indietro di cinque passi come se si fosse dimenticato qualcosa e si rigirava per riprendere il cammino, ma fatti altri passi si rifermava e si rigirava. I due ragazzi incominciarono a ridere. Lo facevano in silenzio per non essere sentiti.
Il suono del trenino del Luna Park spezzò i loro sorrisi. Era il custode, ancora una volta fu il mostro a scappare.
«A questo punto è chiaro che il mostro mangia solo i bambini ed ha una grande paura degli adulti!» disse Camillo.
Dopo una breve disamina decisero che il mattino seguente sarebbero andati di nuovo al Luna Park e si sarebbero rimessi alla protezione del custode: se Dabby Dan aveva paura del custode, finché sarebbero restati con lui non il mostro non avrebbe torto loro un capello.
Prepararono un giaciglio per la notte con dei cuscini presi da alcuni divani situati negli altri uffici. Li adagiarono per terra nella stanza che affacciava sulla strada. Era più comodo di quanto potessero immaginare. Finirono le poche provviste che avevano e restarono a chiacchierare. Ma quando si fece buio, nonostante la luce dei lampioni e i tabelloni pubblicitari, si addormentarono in men che non si dica, stanchi delle avventure vissute. Il sonno di Camillo fu interrotto da un rumore, aprì gli occhi e vide Pamela che tornava a dormire.
«Perché hai acceso la luce?» disse Camillo sconvolto.
«Oh mio Dio, volevo andare in bagno, non ci ho pensato!» si difese la ragazzina spaventata.
Camillo spense la luce ed uscì fuori dal balcone.
«Per quanto tempo l’hai tenuta accesa?»
«Tutto il tempo che sono stata al bagno!» disse la ragazza sentendosi in colpa.
Camillo si accovacciò dietro il parapetto per scrutare se qualcuno avesse visto la luce accesa. Non notò niente di strano, poi andò a controllare i corridoi. Visionò prima la rampa di sinistra, poi ripercorse il corridoio giungendo al lato opposto sull’altra rampa, fu colto da un brivido freddo, freddo glaciale. Dal pianerottolo vide la luce di una torcia che si muoveva tra le scale qualche piano più giù. Corse all’impazzata fino l’ufficio, il terrore era ampliato dal buio, gli sembrò la fine; già vedeva lui e Pamela divorati dalle fauci del mostro. Arrivò nella stanza trafelato. La ragazzina sbarrò gli occhi atterrita.
«Dabby Dan è qui, dobbiamo nasconderci!»
Pamela si paralizzò. Restò seduta sul pavimento dell’ufficio. Camillo mise a posto i cuscini uno sull’altro cercando di camuffare il giaciglio che avevano creato. Chiuse la porta vetrata del balcone, raccolse le loro cose che gettò alla rinfusa nello zaino. Poi prese Pamela per la mano e la tirò su, ma non fu facile, la ragazzina era pallida e con gli occhi che le fuoriuscivano dalle orbite, letteralmente paralizzata. Camillo la chiamò per nome, più volte, a bassa voce. Poi la prese sotto le braccia e la sollevò in piedi, riusciva a malapena a camminare. La tirò fino al corridoio. Non aveva molto tempo per decidere dove nascondersi. Nel corridoio c’era un mobiletto di alluminio, lungo e basso, aveva le porte scorrevoli. Aprì le porte e c’erano solo raccoglitori. Ne prese quanti più ne riusciva a prendere e li portò nell’ufficio adiacente e li poggiò su una scrivania. Con tre viaggi svuotò l’armadietto. Poi tolse il ripiano orizzontale che divideva in due il mobiletto. Lo lasciò su un mobile del ufficio. Alla buona cercò di far entrare Pamela dentro e la posizionò seduta lasciando lo spazio anche per lui. Stava per entrare quando ebbe un’idea, aveva bisogno solo di una penna e un foglio. Tornò nell’ufficio adiacente al mobiletto, trovò un pennarello di quelli indelebili, staccò un foglio da uno dei raccoglitori. Si diresse verso l’ufficio dove avevano alloggiato, si fermò pensieroso, tornò indietro, prese, due raccoglitori e si diresse verso l’ufficio, osizionò i raccoglitori sulla scrivania e scrisse un biglietto.
Scrisse data e orario e vi mise uno sgorbio. Lasciò il foglio vicino ai raccoglitori ed uscì dall’ufficio. In fondo al corridoio sul pianerottolo della rampa c’era il movimento di una luce, segno che qualcuno stava arrivando. Corse verso il mobiletto, lo aprì ed entrò, Pamela era pietrificata. Chiuse la porta scorrevole che aveva piccoli buchi che lasciavano intravedere le ombre. Dopo un quarto d’ora la luce della torcia si muoveva sul pavimento del corridoio seguita da un’ombra, alta e snella, anche al buio la sua sagoma era riconoscibile, spalle curve, camminata dinoccolata, naso lungo e aquilino. La luce, seguita a ruota dall’ombra, andava avanti e indietro; passava e ripassava davanti al mobiletto dove erano nascosti i due ragazzi. Era chiaro che stava aprendo tutte le porte delle stanze che affacciavano sulla strada. Per Camillo questa era la conferma che il mostro aveva visto la luce accesa. Dabby Dan fece avanti e indietro tra le stanze per un po’. Si fermò proprio nella stanza dove erano stati i due ragazzi. Entrò e vi restò qualche minuto, poi uscì ridendo.
«Ah Ah. Il biglietto è finto. Se qualcuno s’illude di potermela fare sotto il naso si sbaglia di grosso. Ci vediamo presto. Prima o poi avverrà quello che deve accadere!»
I ragazzi restarono senza respirare per molto tempo. Anche quando il mostro si allontanò restarono in silenzio, potevano ascoltare i loro respiri, potevano ascoltare il loro battiti, potevano ascoltare il loro terrore. Si addormentarono tardi, molto tardi.
Si svegliarono che il sole splendeva già alto. Avevano le ossa doloranti e muscoli anchilosati. Pamela si guardò attorno ma era ancora intontita, le ci volle qualche minuto per incominciare a ricordare che cosa fosse successo.
«Ma di che biglietto parlava stanotte?»
Camillo entrò nella stanza ed uscì con un biglietto.
«L’avevo scritto per confonderlo, ma non ci è cascato!»
La ragazzina fu scossa da un brivido, poi con un gesto veloce tolse il biglietto dalle mani di Camillo, lo lesse.
«Per la segretaria. Sono pasato per controllare le due pratiche, sono pasato a tarda notte per paura di incontrare il mostro. Ora torno a casa. Ci vediamo quando questa situazzione sarà tornata alla normalità. Le pratiche sono apposto. Il direttore.».
«Ma come l’hai scritto? È pieno di errori!» disse ridendo.
Camillo si mortificò.
«Ma era notte ed ero spaventato. E tu non eri in te!» cercò di giustificarsi.
Ma l’umore di Pamela incominciò a mutare, non sorrideva più e diventò cattiva, molto cattiva.
«Ma ti rendi conto che per colpa tua ora lui sa che siamo stati qui? Non sei capace nemmeno di scrivere un biglietto in modo corretto senza errori? Non pensavi che leggendolo si sarebbe accorto che non era scritto da un direttore? Hai mai visto un direttore che scrive così?»
Camillo ammutolì. Si sentì un incapace. Mai in vita sua era stato umiliato in quel modo. Proprio da lei poi, dalla ragazzina di cui si era innamorato. Restava zitto a guardare il pavimento, poi si voltò, raccolse la sua roba e si avviò per le scale.
Pamela fu presa in contropiede, si aspettava una reazione, si aspettava che si difendesse, che si arrabbiasse, sperava che Camillo l’attaccasse per poter replicare. Ma Camillo se ne era andato. Gli chiese di aspettarla ma non fece in tempo a finire la frase che si rese conto di essere rimasta sola. Prese in fretta la sua roba e gli corse dietro.
Scesero le scale ed uscirono dal palazzo degli uffici. Pioveva.
«E ora come facciamo?»
Camillo proseguì senza rispondere. Fece qualche passo camminando adiacente al muro poi attraversò sotto la pioggia e si diresse verso il Luna Park. Pamela bofonchiò qualcosa ma poi lo seguì guardando verso il cielo con aria preoccupata. Il Luna Park era vuoto. Con la pioggia e le luci spente incuteva tristezza. Si ripararono sotto la cupola della giostra. Camillo si sedette sul bordo, Pamela salì su un cavallo.
«È colpa mia se Dabby Dan è libero!».
«Certo, l’hai liberato tu!» disse Camillo sarcastico, senza rivolgerle lo sguardo.
«Stavo venendo con la suora in città e per strada ho trovato una coccinella ed ho espresso un desiderio. Una maestra una volta mi ha detto che i desideri si avverano sempre con una coccinella. Io ho chiesto di non ritornare mai più al Prosperitano! E la coccinella ha esaudito il mio desiderio!»
«E c’era anche uno gnomo?» chiese Camillo ironico.
«Perché non ti sei arrabbiato per il fatto che ho acceso la luce stanotte? Perché non ti sei difeso dicendo che era colpa mia?».
Camillo non rispose, si limitava a guardare la pioggia che formava grandi acquitrini.
«Prendo botte da quando sono entrata in quel maledetto istituto. Te le danno dal primo giorno che metti piede lì dentro. Ma non ti ci abitui mai. Così quando combini qualcosa la prima cosa che fai è cercare una scusa. Alcuni incolpano gli altri pur di non prenderle. Al Prosperitano tutti fanno la spia o incolpano gli altri, tranne io e Betta. Le ragazze lì sono cattive, false, pur di farsi belle con le suore farebbero qualsiasi cosa. Ma tu no, dal primo momento ti sei preso cura di me, non ti arrabbi mai, anche quando ti tratto male. Non sono abituata ad essere trattata bene. Gli altri non mi permettono di trattarli male, reagiscono, con insulti, botte. Pensavo che prima o poi lo avresti fatto anche tu. E invece no, accetti tutti i miei capricci e così ho preso la mano ed ho perso il controllo. Mi dispiace!».
Per la prima volta Camillo si girò a guardarla. Le sorrise.
«Ti capisco, anche la mia vita è stata piena di botte! Più in là c’è una biblioteca, vogliamo andare a spulciare qualche libro? Magari imparo a scrivere meglio!»
Pamela gli diede un buffetto sulla spalla sorridendo, lo prese sottobraccio e si incamminarono insieme.
Il custode non c’era.