Educazione tra pari II parte
Bullismo
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Analizzando i vari approcci dell’educazione tra pari dobbiamo sottolineare alcuni problemi che si possono incontrare nella fase di attuazione del progetto.
Innanzitutto possiamo osservare come tutti gli approcci dell’educazione tra pari prevedano la formazione, da parte degli esperti, dei ragazzi che andranno a dare sostegno a quelli in difficoltà.
E così nasce spontanea la necessità di porsi alcune domande:
- Mentre i ragazzi vengono formati e il progetto non prende piede, che cosa fa la vittima?
È uno dei problemi più frequenti che si presentano nella maggior parte degli interventi psicologici utilizzati per arginare il bullismo: si propongono progetti lunghi, senza mettere in pratica l’intervento basilare e cioè fermare il bullo.
- Quanto può essere proficuo il supporto di ragazzi formati in poco tempo?
Risulta alquanto difficile credere che uno psicologo, in poco tempo, riuscirà a dare ai ragazzi una formazione adeguata ed efficace, tale da renderli autonomi ed avere chiare le problematiche, trovare delle soluzioni idonee ed attuarle. Davvero i ragazzi riusciranno laddove hanno incontrato grandi difficoltà gli adulti?
Ma quello che riteniamo il problema principale è: la difficoltà di decodificare gli episodi di bullismo.
Come abbiamo già visto in altri articoli, spesso insegnanti e operatori non hanno la chiara percezione del disagio della vittima e soprattutto non riescono a ravvisare comportamenti bullistici, tendendo così a minimizzare il problema.
La domanda a questo punto è: se operatori ed insegnanti hanno serie difficoltà a decodificare situazioni a rischio, come potrebbero riuscire meglio i ragazzi?
Naturalmente la risposta di chi sostiene l’educazione tra pari sta nella supervisione dell’adulto. Ma se pur un adulto suggerisce ad un ragazzo che c’è una chiara situazione di bullismo, come può quel ragazzo attuare un intervento costruttivo e valido, se comunque non ha la percezione che un ragazzo della scuola prevarichi un altro compagno?
Avrebbe la sensazione di praticare un intervento perché costretto, cioè fare qualcosa in cui non crede.
C’è un rischio molto elevato, che i pari non comprendano il disagio della vittima e si schierino dalla parte del bullo. Come abbiamo sottolineato più volte, il bullo è molto abile nell’attirare simpatie e a conquistare gli altri, mentre la vittima, spesso, risulta fastidiosa e antipatica, quell’antipatia che porta molti operatori e compagni a ritenerla provocatrice.
Non è difficile a questo punto immaginare che la vittima possa rivolgersi allo sportello ascolto o richiedere l’aiuto della mediazione dei pari, e invece di trovare dei sostenitori, ricevere ostilità o accuse a favore del bullo.
Riguardo la mediazione tra i pari, poi, dobbiamo sottolineare come questo intervento possa risultare molto poco credibile nel bullismo: il bullo prevarica la vittima, punto e basta, non c’è conflitto tra coetanei, non c’è reale provocazione della vittima, non c’è botta e risposta tra due parti; c’è un bullo che prevarica e una vittima che subisce. A cosa serve la mediazione? Alla vittima serve qualcuno che fermi il bullo, non qualcuno che cerca di mediare e magari le dica che anche lei ha le sue colpe e che dovrebbe cambiare atteggiamento.
Perché non ci stancheremo mai di ripeterlo, anche quando parliamo di vittima provocatrice, niente e nessuno può giustificare i comportamenti del bullo, almeno che non stiamo parlando di provocazioni offensive e lesive. Ma il più delle volte i comportamenti provocatori delle vittime sono indiretti, cioè non sono provocazioni dirette al bullo, ma sono atteggiamenti a sé santi: mettersi continuamente al centro dell’attenzione, parlare molto, vantarsi, raccontare bugie, ironia e sarcasmo, presunzione etc. etc.!