Inclusione scolastica, Accoglienza, Integrazione
Pedagogia ingannevole
Quando nella scuola parliamo di accoglienza o di integrazione dei bambini disabili, stranieri o svantaggiati, stiamo facendo solo della demagogia, e anche se le nostre intenzioni sono quelle di abbattere il muro dell’intolleranza, nella realtà non stiamo facendo altro che rinforzarlo, soprattutto stiamo etichettando i bambini come diversi.
Lo facciamo nell’istante esatto in cui parliamo di diversità. Lo facciamo ogniqualvolta parliamo di integrazione o di accoglienza, lo facciamo ogniqualvolta citiamo alcune persone come appartenenti ad un’altra categoria da rendere al nostro pari.
Se le nostre intenzioni sono quelle di rendere un individuo al nostro pari, questo presuppone che riteniamo quell’individuo diverso da noi, ma non solo diverso da noi, ma anche diverso rispetto ad una “collettività” di cui noi facciamo parte, ma colui che riteniamo “diverso” ne è escluso. Una collettività chiusa che possiede diritti, che ha la possibilità di escludere o includere.
Ma una comunità che ha la possibilità di includere o escludere non è una comunità accogliente.
Nelle Indicazioni Nazionali del 2012 per la scuola dell’infanzia e primaria, nei corsi di formazione, nei seminari, nei convegni sentiamo spesso fior di pedagogisti citare la parola “accoglienza”, il verbo “accogliere” relativo alle diversità, ma la domanda che dovremmo porci è: Ma chi accoglie chi? Bisogna accogliere il diverso, ma diverso da chi? Accogliere presume una condicio sine qua non: io accolgo in un luogo mio, in casa mia, tra le mie braccia, nel mio cuore. Un ospite, un amico, un parente, un conoscente, vengono in casa mia ed io gli apro le porte, li faccio accomodare, cerco di metterli a proprio agio facendoli sentire come se fossero a casa loro. Questa è accoglienza, ma è casa mia, se un giorno ho la luna storta ho tutto il diritto di dire che quel giorno non ricevo nessuno.
Ma la scuola non è mia, la scuola è di tutti, la scuola è della comunità.
Nessuno può accogliere l’altro in un contesto non suo, l’altro ha gli stessi nostri diritti. Se io penso di poter accogliere “qualcuno”, a priori ho deciso che il luogo dove intendo accogliere sia mio, o almeno, che appartenga più a me che a quel “qualcuno”; che io abbia più diritti di lui, perché lui è diverso. Provate ad immaginare di andare al parco pubblico per fare una passeggiata con i vostri figli e di trovare lì un signore che vi fa gli onori di casa, come se il parco fosse suo, e vi dicesse di accomodarvi, di sedervi su quella o su quell’altra panchina e di passeggiare per quella o per quell’altra strada del parco, ne sareste sicuramente infastiditi e, molto probabilmente, gli rispondereste che il parco è di tutti, non suo. Ecco questo è quello che avviene nella scuola quando decidiamo di accogliere qualcuno, come se quel qualcuno, che sia straniero, disabile o altro, avesse meno diritti di noi.
Non si può accogliere un ragazzo disabile, non si può accogliere un bambino straniero, perché la scuola è loro esattamente come nostra.
Io non devo integrare qualcuno, perché quel qualcuno deve essere integrato a priori, senza nemmeno che io mi ponga il problema. Io devo “includere” tutti e non escludere nessuno. Ognuno di noi è un individuo diverso dagli altri, ognuno di noi deve includere, cioè non escludere gli altri.
Ma attenzione, quando parliamo di inclusione scolastica non possiamo riferirci ai soli disabili, ai soli bambini stranieri o quelli svantaggiati, quando parliamo di inclusione è bene sottolineare che ognuno include tutti gli altri.
Includere non significa accogliere o integrare, includere significa: NON ESCLUDERE.
Se noi tutti diventassimo persone inclusive il problema dell’accoglienza non esisterebbe, perché chi è inclusivo non si pone il problema dell’altro, perché l’altro è parte della comunità come lo sono tutti gli altri, e nessuno ha il diritto di escludere o includere.
Semplicemente bisognerebbe accettare l’altro senza porsi il problema che sia disabile, straniero o semplicemente diverso.
Naturalmente il problema è proprio quello della “accettazione”, perché l’accettazione è un termine soggettivo: io posso accettare che Tizio entri a far parte della scuola, non posso vietarglielo, ma posso non accettarlo come amico, posso non rivolgergli la parola, posso emarginarlo, escluderlo. In quest’ottica si può sicuramente fare un lavoro sull’inclusione, ma torniamo di nuovo al punto di partenza, l’accettazione non è rivolta ai soli disabili, stranieri e svantaggiati, poiché un ragazzo può accettare un disabile o uno straniero, ma potrebbe non accettare il compagno di banco semplicemente perché gli è antipatico: inclusione = non esclusione, ogni bambino include tutti, nessuno esclude nessuno.
Per questo motivo la maggior parte dei progetti di intercultura, e quelli di inclusione in generale, partono con il piede sbagliato e a volte si riducono a mere manifestazioni folkloristiche che non servono né al bambino, né alla scuola, né alla comunità in generale.
Purtroppo, l’attuale macchinosità della didattica italiana, ma anche europea, rende il lavoro degli insegnanti tortuoso, e nel voler inserire un bambino straniero in classe attraverso i progetti e programmazioni, si perde di vista il concetto più importante dell’insegnamento:
la semplicità!
Troppo spesso si dimentica che la cosa più importante per far sì che un bambino stia bene a scuola è che possa sentirsi come tutti gli altri, semplicemente essere trattato come tutti gli altri, a partire dall’insegnante, sentirsi incluso, cioè parte di un gruppo come tutti gli altri membri e non essere accolto in quel gruppo come un bambino diverso.